II -
SPIRITUALITÀ DI S. PAOLO DELLA CROCE
seconda parte,
pubblicata
da P. Alberto Pierangioli sul Mensile " AMICI di Gesù Crocifisso" -
dicembre
2001
RIFLESSIONI
DEL P. ADOLFO LIPPI
SULLA SPIRITUALITA' DI SAN PAOLO DELLA
CROCE,
mistico della Passione
L'incontro col
Taulero: il fondo dell’anima
Non sappiamo come Paolo abbia
avuto tra le mani il grosso volume delle opere del Taulero, che
ancora si conserva. Esso era stato pubblicato a Macerata, in latino, nel
secolo precedente. Paolo lo lesse per
la prima volta, probabilmente nel 1748, all'età di cinquantasei anni.
Giovanni Taulero,
domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartenente al gruppo di teologi
mistici della scuola Renana, era un autore discusso. Tuttavia insigni
teologi e santi lo avevano
validamente difeso. Taulero non è
principalmente uno speculativo, ma un santo. La sua ambizione non è
quella di insegnare dottrine
meravigliose, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai
separata dalla teoria. E non si
tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente
a fare spazio all'azione dello Spirito di Dio.
Dal Taulero Paolo ricava
soprattutto la dottrina riguardante "il fondo dell'anima".
Entrando nel proprio fondo, l'anima
ha la percezione di Dio nella forma più pura che si possa avere. Ivi risuona
la sua testimonianza quando ogni altra voce tace. È necessario che tutte
le facoltà cessino di operare
perché si possa ascoltare Dio in questo fondo, anche se è vero che le
azioni delle facoltà ricevono forza
da esso. Questa percezione la si può avere, forse, solo per qualche istante,
ma quando la si ha, è come se si vivesse già nell'eternità. Nel
fondo dell'anima abita Dio con la sua
luce increata.
Paolo chiama il fondo assai
liberamente "suprema parte dello spirito" (L I,118), "santuario
dell'anima" (L I,538), "apice
della mente" (L II,731), "fondo
o centro dell'anima" (L II,471). Ad esso non possono accostarsi né gli angeli cattivi né quelli
buoni, ma l'anima è sola col suo
Dio. Così ne scriveva ai suoi religiosi in una circolare del 1750: "Gesù,
che è il divino Pastore, vi condurrà come sue care pecorelle al suo
ovile. E qual è l'ovile di questo
dolce, sovrano Pastore? Sapete qual’è? È il seno del divin Padre;
e perché Gesù sta nel seno del Padre, così in questo seno sacrosanto,
divino, Egli conduce e fa riposar le
sue care pecorelle; e tutto questo sopraceleste, divino lavoro
si fa nella casa interiore dell'anima vostra, in pura e nuda fede e santo
amore, in vera astrazione da tutto il
creato, povertà di spirito e perfetta solitudine interiore; ma
questa grazia sì eccelsa si concede solamente a quelli che studiano di
essere ogni giorno più umili,
semplici e caritativi" (L IV,226).
La lettura del Taulero produceva
in Paolo straordinarie risonanze. Sentiva una profonda sintonia
con lui, si commoveva anche soltanto al nominarlo, pensando ai suoi
insegnamenti.
Il tutto e il niente
Assai prima di conoscere il
Taulero, Paolo insiste sulla presentazione della creatura come un niente
o "un orribile nulla" e di Dio come "il
Tutto". "Ritorni a buttarsi nel suo niente, -scrive
alla Grazi nel 1741 - a conoscere
la sua indegnità e da questa cognizione ne ha da
nascere una maggior fiducia in Dio" (L
I,267). E nel 1740 aveva già scritto alla Bresciani: "Chi vuol trovare il vero
tutto che è Dio, bisogna che si butti nel niente. Dio è
quello che per essenza è quello che è: "Io sono colui che
sono". Noi siamo quelli che non
siamo, perché per quanto scaviamo a fondo non troveremo altro che niente,
niente; e chi ha peccato è peggio
dello stesso niente, perché il peccato è un orribile nulla,
peggio del nulla" (L I,471).
Motivazione dell'invito ad annichilarsi
è, per Paolo, sia la condizione di creatura, sia l'esempio della
kenosi del Figlio di Dio. Nell'accentuazione confusionaria e
permissiva della benevolenza di Dio
che caratterizza la nostra epoca non è facile percepire l'elemento
dell'infinita distanza fra il
Creatore e la creatura che Paolo manifestava anche con la semplice
espressione con cui si riferiva a
Dio: "Sua Divina Maestà". Si tratta di una distanza
morale che affonda le sue radici nella
distanza metafisica. Paolo sintetizza il suo pensiero a proposito di tale
distanza con le seguenti espressioni: "Per essere santo ci vuole
una "N" e una "T". Chi cammina più di dentro
indovina il significato, ma chi non è ancora entrato in vera profonda solitudine,
non sa indovinarne il significato. Ed io soggiungo: la "N" sei
tu che sei un orribile
"nulla"; la "T" è Dio che è l'infinito
"Tutto" per essenza. Lascia dunque sparire
la "N" del tuo niente nell'infinito "Tutto" che è Dio
ottimo massimo ed ivi perditi tutto
nell'abisso dell'immensa Divinità. Oh che nobile lavoro è questo"
(L III,447).
A padre Pietro Vico, maestro dei
novizi al monte Argentario, scriveva: "Non
v'è da temere nessun inganno purché
vi sia e si accresca la cognizione del proprio nulla avere, nulla sapere,
nulla potere e che, quanto più si scava, si trova anche più l'orribile
nulla, per quindi lasciarlo sparire
nell'infinito Tutto" (L III,450).
E ad Agnese Grazi:
"Non
v'è cosa che piaccia più a Dio quanto l'annichilirsi e abissarsi nel
nulla e questo spaventa il diavolo e lo fa fuggire... Per prepararsi alla
battaglia ed essere armata
dell'armatura di Dio non v'è mezzo più efficace che l'annichilirsi e annientarsi
davanti a Dio, credendo fermamente di non essere atta ad uscirne vittoriosa
se Dio non è con lei a combattere, onde deve gettare questo suo nulla in quel
vero tutto che è Dio e con alta fiducia combattere da valorosa guerriera,
stando certissima d'uscirne
vittoriosa" (L I,150).
Nel 1768 scrive alla Calcagnini,
con grande tenerezza di espressioni: "Standosene
in quel sacro deserto interiore, ivi
lasci sparire il suo vero nulla nell'infinito Tutto e riposi in Gesù
Cristo nel seno del dolcissimo Padre come bambina, succhiando il latte
divino alle mammelle sacratissime
dell'infinita sua carità. E se l'amore la fa dormire di quel mistico
sonno che è l'eredità che il Sommo Bene dà in questa vita ai suoi
diletti, lei dorma pure, che in tal
sacro sonno diverrà sapiente della sapienza dei santi" (L
III,815).
Morte mistica e divina natività
Paolo della Croce deve al Taulero
la nozione di "divina natività". La nozione di "morte
mistica"
l'aveva
maturata per conto suo fin dal tempo del Diario, anche se in esso non si trova
esplicitamente questa espressione. Lui preferiva allora "il
totale staccamento da tutto il
creato", comprese le
consolazioni spirituali. Scrivendo, nel 1734, alla Grazi, le dice: "Oh
mia figlia! Fortunata quell'anima che
si stacca dal suo proprio godere, dal proprio sentire,
dal proprio intendere! Altissima lezione è questa; Dio gliela farà
imparare se lei metterà il suo
contento nella croce di Gesù Cristo, nel morire a tutto ciò che non è Dio
nella croce del salvatore!"
(L
I,107).
L'espressione "morte
mistica" era assai in uso presso i quietisti. Paolo, però, la
usa interpretandola vitalmente
all'interno della propria dinamica interiore, rigorosamente ortodossa e
responsabilizzante. Dopo il 1748, la dottrina della morte mistica,
collegata con quella della divina
natività, ritorna continuamente nei suoi scritti. Scrive, ad esempio, a
Lucia Burlini nel 1751: "Tutta
umiliata e riconcentrata nel vostro niente, nel vostro niente potere, niente
avere, niente sapere, ma con alta e filiale confidenza nel Signore, vi
avete da perdere tutta nell'abisso
dell'infinita carità di Dio che è tutto fuoco d'amore... Ed ivi in
quell'immenso fuoco lasciar consumare tutto il vostro imperfetto e
rinascere a nuova vita deifica, vita
tutta d'amore, vita tutta santa; e questa divina natività la farete
nel divin Verbo Cristo Signor nostro… Sicché morta misticamente a tutto
ciò che non è Dio, con altissima
astrazione da ogni cosa creata, entrate sola sola nel più profondo
della sacra solitudine interiore, nel sacro deserto…" (L
II,724-725).
Per due secoli si è cercato un
piccolo trattato sulla morte mistica che Paolo diceva di aver inviato
a diverse persone. Nel 1976 ne è stata scoperta una copia nel monastero
delle monache passioniste di Bilbao
in Spagna. Negli anni seguenti ne furono trovate altre due copie.
Il trattatello è intitolato "Morte
mistica ovvero olocausto del puro spirito di un'anima
religiosa". Si può dividere
in due parti. La prima contiene la dottrina generale sulla morte
mistica. La seconda applica tale dottrina alla pratica dei singoli
consigli evangelici nella vita
religiosa. Gli studi che sono stati fatti rilevano che il testo, così
com'è, non sembra stilato da san
Paolo della Croce. La sua stesura sembra dovuta a un collaboratore
redazionale, che fu probabilmente il
padre Giammaria Cioni. La data di composizione più probabile si colloca
negli anni 1760-1761, anni di grandi
prove per Paolo, a causa del fallimento definitivo della richiesta dei
voti solenni e a causa delle malattie di cui soffriva.
La morte mistica è una vera
immersione battesimale. Le corrisponde molto bene l'attuale spiritualità
del battesimo e quella liturgica del mistero pasquale. Anche la
spiritualità dell'immersione e della
croce gloriosa, come viene oggi sviluppata dal movimentò neocatecumenale,
è fondamentalmente la stessa cosa. Paolo della Croce intuiva queste
realtà sulla base dei testi
scritturali e delle esperienze dei mistici cristiani che lo avevano
preceduto. prima-parte-->>
P. Adolfo Lippi
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