«Ti ringrazio, o Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste
cose ai potenti ed ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli».
È parola che sembra bella, carezzevole, ed è parola
tremenda quella evangelica perché viene a dirci che nell’ordine
di grandezza di Cristo non si entra se non si diventa piccoli.
E diventare piccoli, secondo il Vangelo, vuol dire diventare
discepoli, entrando nel mistero dell’obbedienza di Cristo
protratto fino alla morte e alla morte di Croce.
Allora la Croce, che dice insieme peccato, amore e dolore,
diventa l’unico possibile alfabeto che il cristiano possa
assumere per dire e per dirsi. Sigla San Paolo: «Quando io
fui in mezzo a voi, non seppi altro che Cristo e Cristo
crocifisso».
Sorelle e fratelli, di questa irripetibile e indimenticabile
Chiesa di Lucca, è solo con tale alfabeto che noi possiamo
accostarci stasera a questo tesoro di Dio, a questa «Gemma»,
che Egli ha deposto nel campo di questa Chiesa e di questa
città.
Dinanzi all’esperienza mistica che si avvolge e s’affonda
nella coltre del silenzio, ogni linguaggio balbetta; la parola
diventa bambina e può solo sfiorare e indicare, non certo
penetrare o palesare.
Anche noi stasera balbettiamo con piccole parole. Credo che si
possa semplicemente dire così: La vicenda di Gemma è una
vicenda sponsale, è un patto nuziale sancito nel sangue.
Gemma è una sposa di sangue. Nella espressività biblica, la
nuzialità è la radicalità e l’esclusività dell’amore.
È la profondità e la latitudine di una vita che si consuma
nell’atto di amore per l’amato.
Direi che in Gemma è ravvisabile una nuzialità in due
dimensioni.
La prima nuzialità di Gemma è verso i peccatori.
Nel suo parlare, nel suo scrivere, ma soprattutto nel suo
patire, c’è una intensità ed esclusività di amore di
amore verso i peccatori che sconcerta e smarrisce, dice nell’estasi:
«La vittima di tutti i peccati voglio essere io, Gesù! O
dimmelo, Gesù, che li vuoi tutti salvi. Qualunque sorta di
patimenti che tu mi mandi, accetto tutto. Loro ti offendono, e
tu sfogati con me. Sei morto in Croce anche per loro,
aspettali, o Gesù. Peccatori ne hai tanti, vittime poche.
Voglio essere tutta vittima per i peccatori, voglio vivere
vittima e voglio morire vittima per i peccatori».
Ma la solidarietà, la nuzialità di Gemma con i peccatori
va inarrestabilmente più avanti, fin quasi a sentirsi lei
carica di un’enormità di peccati. È come se essa entrasse
dentro tutto il peccato del mondo e lo sentisse pesare sulla
propria anima, e lo sentisse bruciare sopra la propria pelle.
Ella ripercorre, nella sua vicenda mistica, la strada di
Cristo: il Verbo di Dio unisce a Sé, nel vincolo nuziale dell’Incarnazione
e della Croce, l’umanità peccatrice, fino ad immedesimarsi
in essa, a diventare Lui personalmente, unico innocente, tutto
il nostro peccato, tutto il peccato del mondo.
E qui San Paolo scrive un’affermazione che dà le vertigini
ai teologi, ma che appare elementare ai mistici. Scrive Paolo:
«Cristo, che non commise peccato, Dio lo fece diventare
peccato in nostro favore, perché noi diventassimo in Lui
giustizia di Dio».
Così avviene in Gemma. Lei, che a giudizio di Padre
Germano, non commise mai peccato mortale, e neppure un peccato
veniale deliberato, lei si sente la più grande peccatrice
davanti a Dio. Gemma sta di fronte alla Croce di Gesù
immedesimandosi ed impersonificandosi nel peccato del mondo,
nella remota lontananza delle creature.
E così, carica di peccato perché sposa dei peccatori, chiama
e chiede l’amore dello Sposo; il sangue che è il prezzo
dell’espiazione e del perdono, quel Sangue che è lavacro di
rigenerazione e di bellezza, dove la Chiesa scioglie ogni ruga
e cancella ogni macchia.
La seconda e più decisiva nuzialità di Gemma è verso
Gesù e Gesù Crocefisso: una sposa di sangue, dicevamo.
Gesù Crocefisso, perché Lui è «il Velo squarciato», lo
svelamento supremo dell’amore; Gesù Crocefisso perché non
c’è misura più grande nel dono dell’infinitudine del Dio
Trinità che si consuma in un atto sacrificale di amore per la
creatura peccatrice; Gesù Crocefisso, perché quelle piaghe
sono le «porte sante» dell’accesso, dell’incontro, della
comunione; Gesù Crocefisso, perché Egli è lo Sposo di
Sangue che trae e avvince a Sé l’amore di Gemma , la sposa
crocefissa, nel segno delle stigmate.
E le stigmate di Gemma sono la fioritura corporea, l’evidenza
solcata nella carne di questa nuzialità, di quest’abbraccio
dello Sposo Crocefisso che tutta l’avvolge e la stringe a
sé, secondo le parole trepide e brucianti del Cantico: «La
sua mano mi cinge il capo e la sua destra mi abbraccia».
Ma essere sposa del Crocefisso, vuol dire consegnarsi alla
misura suprema dell’amore situata nell’abisso del dolore.
Il binomio amore-dolore, tanto frequente nella sfinita
letteratura romantica tardo ottocentesca, è invece
originalmente ed imperdibilmente cristiano: al di fuori di
esso ci sta la filantropia, l’emozione, la commozione, il
galateo etico, il calcolo astuto, l’edonismo.
Ma l’annuncio evangelico dice che non si ama senza patire,
non si ama senza morire.
Questa è la misura fissata nella Vita di Dio con la Croce di
Cristo, questa è la misura fissata nella vita del discepolo
con la persona di Maria, Addolorata e Crocifissa ai piedi
della Croce del Figlio.
Questo binomio di amore e dolore intreccia l’intera vita
di Gemma, tanto che il dolore diventa la strada e la forma
dell’amore. È un dolore che oserei definire «totale»: è
il dolore fisico, il dolore psichico, il dolore morale, il
dolore spirituale fino alla percezione dell’abbandono di Dio
e della vessazione satanica sulla propria vita.
Come Cristo sulla Croce muore di piaghe e di amore, di amore e
di dolore, così Gemma nell’ultima stanzetta di via della
Rosa, muore di tisi e di amore: l’abisso del dolore s’incontra
e si intreccia col picco dell’amore. Davvero, morire d’amore
fu l’ultimo segreto di Gemma, e lo scrisse negli ultimi
giorni a Padre Germano: «Babbo mio, se lei potesse dire
fra qualche giorno: Gemma fu vittima d’amore e morì solo di
amore, che bella morte!».
(continua
in seconda
pagina)