La biblioteca dei passionisti di Sora,
come abbiamo visto, registra più marcatamente di quelle
dei passionisti del Lazio pontificio una storia di accrescimenti
con fondi privati di ecclesiastici, ma anche una
continuità di ingressi, talora massicci, programmati
dalla comunità. Questo non ha pregiudicato la sua
unità tipologica, né l’ha distratta dall’indole
propria delle biblioteche dell’Istituto quando, alla seconda
metà dell’800, si decisero i nuovi ingressi e
committenze editoriali prima della stasi involutiva che ebbe
inizio dal 1866.
La sua posizione nel Regno di Napoli e i suoi frequenti rapporti
con le sedi passioniste più giovani di Caserta e Aversa
la pongono a contatto con le novità librarie, con editori
e con qualche scrittore locale, come il filosofo Marsella a Sora
(36) che frequenta il convento, oppure con i testi di teologia
dell’aversano De Folgore che finiscono negli scaffali della
sede sorana. Questi contatti erano anche segno di un vantaggio
economico nei confronti delle altre comunità del Lazio
sud. La biblioteca ha registrato sensibilmente questo vantaggio
con acquisti che distinguessero la provvista libraria. C’era
una barriera ideale, per così dire, che assicurava la
presenza di testi e autori per ciascuna disciplina, senza i
quali una biblioteca conventuale non poteva dirsi completa.
Così la libreria di Sora, costituita a metà ‘800,
ancora doveva avere le opere di Benedetto XIV (Lambertini)
scritte nel ‘700, su vari argomenti di dottrina giuridica.
Aveva ancora i tomisti Goudin e Gonet (‘600), Jacquier (‘700),
tutti spiazzati poi dal Roselli (1722-1784) ritenuto il
più fedele a San Tommaso e seguito dai passionisti fino
alla seconda metà dell’800, nell’originale o nel
compendio del 1837. Ma la biblioteca di S. Maria degli Angeli ha
anche le voci dissonanti di filosofi non tomisti come Condillac,
Genovesi, Galluppi, Gioia, Gioberti, Rosmini ecc.
Forse faceva parte di una
completezza ideale anche la difficoltà a liberarsi
definitivamente di sussidi segnati dall’età, ma non
ancora sostituiti da sicure autorità, come per i volumi
di scienze fisiche e chimiche dell’Abate Nollet (Venezia
1762), del Della Torre (Napoli 1767), del Poli (Napoli 1792),
del Prisson (Napoli 1802). Così per Rollin e Crevier,
quanto alla storia antica. Entrando in campo più
specificamente ecclesiastico, autori già desueti all’epoca
della nascita di questa biblioteca, a metà ‘800, ancora
si conservano con onore: moralisti come l’Alexandre, l’Antoine,
il Cuniliati, il Reiffenstuel; biblisti come Calmet, Sacy, anche
in buona veste tipografica. Senza dire che qualche nome persiste
in biblioteca non come modello o guida di lavoro, ma per diletto
culturale, come Bossuet, come Giacco, l’oratore sacro della
Napoli del ‘700, disdegnato da Sant’Alfonso.
Potremmo proseguire senza rischiare
di mettere in disaccordo la dotazione di una biblioteca con l’attualità
della sua funzione perché il religioso è portato a
cercare nei libri sia l’utilità di uno strumento di
sapere e di comunicazione, sia un titolo venerando che renda la
biblioteca degna di questo nome. In questo modo la biblioteca
documenta al tempo stesso l’attualità e la
continuità nel tempo, assicurando al libro una sua
sopravvivenza anche dopo aver esaurito la sua funzione di
servizio attuale del sapere, soprattutto nel cantiere dei corsi
di formazione giovanile. Perché, dopo tutto, per il religioso
il libro non sarà mai un testo legato a fortuna effimera
o sospetta, come può accadere nella narrativa, nella
polemica, nell’oratoria e talvolta nelle stesse discipline
ecclesiastiche, quando una sentenza censoria ne rivela debolezze
e incongruenze.
Intanto queste biblioteche ancora
conservano Voltaire e Rousseau al fianco di Platone e Agostino
– dopo tante vicende – come gli antichi monasteri che
trascrivevano e conservavano tanto le pagine pagane di Ovidio
che quelle cristiane di Origene. Anche questo è la
biblioteca ideale: tenere a un livello di permanenza
aristocratica la produzione significativa dell’ingegno umano
seguendo il filtro implacabile del giudizio storico che passa
all’oblio quello che ritiene banale, ripetitivo, inutile. Il
libro è nella logica del successo, dove non valgono
diritti, ma meriti e fortune.
Il parametro di giudizio resta, il
libro spesso passa e questo ha associato nei conventi al
carattere ideale, anche quello essenziale, quando contingenze
storiche e ragioni di spazio costringevano a criteri selettivi.
Abbiamo detto "costringevano" perché dalla seconda
metà del secolo XVIII, a cominciare dalle biblioteche dei
gesuiti e poi delle altre, da quel discusso ’98 in poi, le
biblioteche ecclesiastiche sono portate a pensarsi in un grado
di completezza che unisca alla disponibilità essenziale
la funzione ideale, come in una implicita, prolungata emergenza.
Per oltre un secolo e cioè fin quasi alla vigilia del
secolo XX, queste raccolte, quando sono rimaste in vita, hanno
registrato ritornanti arresti di crescita, smembramenti, aste
pubbliche, vendite, traslochi, con inevitabili perdite: era il
settore debole e bistrattato del patrimonio nobile della Chiesa
e della nazione, ma era spazio umano ed esercizio di
libertà.
Ne venne di conseguenza che dall’ultimo
ventennio del secolo XIX, dopo le requisizioni di Stato, quando
il libro è un prodotto più accessibile, anche
perché meno pregiato di prima, stenta ad alimentare la
biblioteca comunitaria, patrimonio sacro e trascendente, e
comincia a entrare nella disponibilità privata del
religioso. Ormai la libreria conventuale è un’istituzione
vulnerabile come simbolo e come "bene ecclesiastico".
Ci vorranno anni prima che si torni all’antico culto, in
contesti più sicuramente democratici, ma non con la
venerazione di prima.
Le nuove attenzioni ai fondi
antichi, ritrovati sostanzialmente nella consistenza recuperata
alle aste di Stato e rimasti custoditi come una giacenza quasi
inerte, affrontarono l’ultima prova storica nelle nostre terre
col passaggio del fronte di guerra del ’43-’44 e con la
successiva ricostruzione dei fabbricati che pure comportarono
qualche danno per traslochi e nuovi arredi.
è approdato fino a noi, un
po’ mutilo, ma con tutto il suo linguaggio, quel mondo
popolato di stampatori, editori, incisori, autori che dal ‘400
all’800 hanno dato vita a eventi, teorie, immagini, superando
burrasche e insidie varie. Ora tutto è pressato dagli
antichi torchi nella carta artigianale degli antenati e pronto a
riprendere vita nelle nostre mani.
Dopo queste rapide informazioni
possiamo definire ideale una biblioteca che focalizza dotazione
e funzione sulla domanda del momento storico circa il sapere. Da
qui deriva che può inseguire questo connotato una
comunità segnata da precisa identità culturale,
quella che oggi diciamo carisma. Questa identità, stabile
nel tempo, spirituale e operativa, giudica e acquista secondo un
criterio affermativo e difensivo. In altre parole: la biblioteca
ideale segue il cammino della cultura di cui è monumento
e strumento.
I grandi passaggi storici,
perciò, hanno lasciato traccia in queste raccolte, come
ad esempio l’Illuminismo, le esuberanze ottocentesche per un
verso, e ultimamente il Concilio per altri aspetti, generando
attese, ingressi e abbandoni di titoli. È così che
si succedono autori e testi determinando anche avvicendamenti e
fortune editoriali. Ne diamo un piccolo saggio sommario: Turchi
rimpiazza Cattaneo dopo Segneri nei predicabili, il Liguori fa
dimenticare Antoine e Cuniliati in teologia morale, la Bibbia in
italiano del Martini (che uscì per prima a Napoli nel
1771) si affianca a biblisti consolidati come Sacy e l’eterno
Van den Steen (1567-1637) che ancora veniva ristampato e
acquistato a Napoli nel 1858. Roselli prende il posto di Goudin,
Gonet e Jacquier e lo tiene anche nell’800, finchè non
si affermano le nuove scuole neotomiste.
Con questo intendiamo sottolineare
un criterio e una tendenza, non un risultato raggiunto perché
quell’ideale segue un cammino che non si arresta. La stessa
produzione locale obbedisce a questo orientamento generale del
tempo antico, dove più attive sono le officine
editoriali. Quelle di Napoli, fornitrici di Sora, resuscitano
con replicate ristampe nell’800 gli autori antichi, come
abbiamo visto, e danno prova ulteriore che la biblioteca ideale
non è solo un’ipotesi contemplativa. Abbiamo, anzi,
notato che i fattori di ricchezza, di varietà e
unità passano anche per i contributi locali che sono il
vaglio storico e concreto di quel carattere permanente connesso
ai grandi prodotti del sapere.
Concludendo: la biblioteca ideale
sarà stato un vagheggiamento legittimo, confacente a
qualche ambiente monastico premoderno: disponibilità
piena della produzione scritta nell’unica lingua latina e nell’unico
orizzonte cristiano. I conventi, dopo, hanno cercato di
replicare nel loro piccolo quella grande ricchezza, ma hanno
dovuto misurarsi con l’ingiuria dei tempi e con i limiti
intrinseci di questo desiderio. È per questa ragione che
ogni biblioteca conventuale reca una vaga impronta di quel
sogno, come se fosse un vecchio mappamondo dello scibile:
così eravamo quando l’occidente sognava di esprimere e
conservare tutta la cultura, quella che gestiva come un
monopolio.