Messaggio per la Pasqua 2005 del Superiore Provinciale
di
Antonio Rungi
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Circolare
marzo 2005
Martedì
1 marzo 2005, ore 8,30
Carissimi Confratelli
1. In questo mese di marzo 2005, durante il quale ci apprestiamo a vivere la Pasqua annuale, che si celebra il 27 marzo prossimo, quale motivo di riflessione per tutti noi ho scelto “Testimoni della risurrezione”. Si tratta di una tematica che ben conosciamo, anche perché, la vita consacrata, per sua natura, è testimonianza e anticipo della Pasqua eterna. Come sacerdoti, poi, siamo più strettamente congiunti al mistero della Pasqua, il cui memoriale celebriamo nella Santa Messa quotidiana.
2. Partiamo da un versetto degli Atti degli Apostoli: «Quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio» (At 8,4), annota Luca mostrando come la persecuzione che si abbatte sulla comunità nascente porta i credenti a uscire da Gerusalemme e a farsi annunciatori del Vangelo di Gesù nel mondo. Si dà così attuazione al comando dello stesso Risorto che, nel suo dialogo con gli apostoli, aveva proclamato: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Si compiva così la linea profetica anticotestamentaria che aveva annunciato l’apertura della salvezza a tutti i popoli e che lo stesso Risorto aveva sintetizzato in queste parole: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,46-48).
3. Di questa dimensione dinamica e itinerante della esperienza cristiana hanno piena consapevolezza i primi discepoli. Si formano comunità cristiane, ma esse non vivono per se stesse, bensì si preoccupano di promuovere e sostenere, direttamente o indirettamente, una missione che non può mai fermarsi, «fino agli estremi confini della terra». Tale era stata la comunità di vita dei primi discepoli con il Maestro, percorrendo le strade della Palestina alla continua ricerca di un contatto con folle sempre più numerose, mentre «se ne andava per le città e i villaggi» (Lc 8,1), alla ricerca della pecora che si era perduta (cfr. Lc 15,3-7).
4. Tale fu l’esperienza anche del nostro Fondatore, San Paolo della Croce e di quanti lo seguirono all’inizio della sua avventura carismatica e missionaria e lo seguono ancora oggi, mossi dallo spirito missionario che si manifesta in tanti ambiti della pastorale. Dalla predicazione itinerante, alle parrocchie, all’insegnamento, alla direzione spirituale, agli esercizi spirituali, all’assistenza agli istituti femminili di vita consacrata, alla comunicazione sociale, all’assistenza ospedaliera, alla cultura. Un panorama davvero invidiabile del nostro impegno apostolico e missionario, che ci dovrebbe premiare per vocazioni, per stima ed apprezzamento, per una specifica collocazione all’interno della Chiesa universale e delle chiese particolari, ma che di fatto ci fa scoprire la nostra marginalità, la nostra scarsa incidenza e forse mette in discussione la nostra stessa credibilità di religiosi e persone totalmente consacrate al Signore. Su questo ognuno esamini attentamente se stesso. Ma è opportuno fare riflessioni e trovare risposte all’attuale situazione del nostro essere passionisti del terzo millennio in un mondo che cambia continuamente.
5. Un religioso che si mette in cammino non può avere come via che la strada stessa di Gesù. La parola di Gesù ai discepoli è chiara: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9,23). E la via di Gesù ha due caratteristiche fondamentali. È anzitutto un “discendere”: è la via dell’incarnazione che conduce il Figlio di Dio a farsi uomo a porre la sua dimora tra gli uomini, «assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,7) e poi a “umiliarsi” «facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Ma la via di Gesù è poi anche un “ascendere”, é il risorgere da morte che lo porta a salire alla gloria del Padre, «innalzato alla destra di Dio» (At 2,33). La dinamica della Pasqua segna la via della persona consacrata. Ed è questa dinamica, questo cammino che i discepoli faticano a comprendere fin dall’inizio, fin dal muoversi di Gesù verso Gerusalemme (cfr. Mt 16,21-23) e poi nella notte del tradimento (cfr. Mt 26,31.56) e sotto la croce (cfr. Lc 23,49). Ma è un cammino che siamo chiamati a percorrere tutti se vogliamo essere discepoli di Gesù e di Gesù Crocifisso.
6. Anche i due discepoli, che nella sera della domenica di Pasqua si muovono sulla strada tra Gerusalemme e Emmaus, si stanno allontanando dalla città santa; ma non lo fanno perché pressati da una persecuzione, né perché pensano di dover attuare una missione. Al contrario, la loro ha tutto il sapore di una resa, dell’abbandono, della ritirata dopo una disfatta. Il loro sguardo è «triste» (Lc 24,17), e rivela il vuoto e il peso che portano nel loro cuore. A chi si avvicina loro con amore, il volto dei due uomini non può nascondere le angosce e gli interrogativi che essi portano con sé. Non bisogna scappare via dai problemi e dalle difficoltà, bisogna saperli affrontare con coraggio e speranza cristiana. La pedagogia di Cristo, come è ovvio, segue percorsi diversi da quelli di noi esseri mortali. Di fronte alle tante esigenze ecclesiali e di vita fraterna in comunità, l’atteggiamento da assumere deve essere quello che ci ha insegnato Gesù: l’apertura al dialogo e l’accoglienza di tutte le domande, nella chiarezza della verità, di cui siamo sempre e solo servitori.
7. Il lento narrare e ragionare dei due discepoli di Emmaus ha qualcosa di estremamente attuale. L’identità, la vocazione di una persona, il cammino che essa può e deve compiere è racchiusa nella sua stessa storia e in quella di cui si è parte. Farsene consapevoli protagonisti è un passo necessario di una vicenda identitaria e vocazionale. Aiutare a farlo è un compito non secondario di una pastorale della maturità di fede e della vocazione. Non è affatto scontato. Al contrario: per lo più ciascuno vive la propria vicenda come un frammento, anzi un insieme di frammenti, e rischia di non saper mai dare una linea logica a quanto vive e al contesto in cui vive. Occorre aiutare a narrarsi e a narrare, a ritessere il tessuto delle storie umane in cui si è collocati, avendo la consapevolezza che la trama che tutto regge è la storia dell’amore di Dio verso tutti gli uomini. Ogni storia della nostra personale chiamata alla vita consacrata e sacerdotale dovrebbe essere raccontata con la consapevolezza di un grande dono ricevuto e non come una lamentazione perenne.
Per fare questo occorre farsi compagni di viaggio, come Gesù. Fin quando lui non si fa vicino ai due viandanti verso Emmaus, tra loro si intrecciano discorsi e discussioni, come pure dispute che non avevano approdato a nulla. È la domanda di Gesù che permette di dare a una serie di interrogativi un percorso logico, in cui ciascuno ritrova il proprio posto: Gesù il Nazareno; la potenza profetica che si era manifestata nelle sue parole e opere; la consegna, la condanna e la crocifissione; la speranza di una liberazione; il tempo trascorso senza novità; le voci di donne e discepoli, un sepolcro vuoto, la sua assenza, la sua presenza da “Risorto”.
8. «Resta con noi» (Lc 24,29): è l’invito dei due discepoli allo sconosciuto viandante che si è affiancato a loro e che ha gettato con la sua parola una nuova luce sulla vicenda umana di cui sono stati protagonisti, riferendo a Gesù le parole della Scrittura. L’espressione dei due discepoli non è l’invocazione a Cristo Signore, perché egli continui ad essere loro vicino. È piuttosto un invito allo sconosciuto viandante, la cui identità rimane ancora misteriosa, perché non resti solo lungo il cammino, quando ormai si fa sera, ma si fermi con loro.
L’invito è espressione di sollecitudine verso una persona incontrata mentre, solitaria, si avventurava per le strade insicure e pericolose del paese. Non è una richiesta di aiuto, ma un gesto di spontanea accoglienza, l’offerta di condividere un luogo in cui rifugiarsi per la notte, una mensa a cui rifocillarsi e, anzitutto, una fraternità che aiuti a superare solitudine ed estraneità. In una parola, è un gesto di solidarietà. Lo sconosciuto, per il momento, è soltanto un povero, a cui i due offrono un gesto d’amore.
9. Non si dà vero cammino nella fede che non generi frutti di carità e non si dà cammino nella fede che non si intrecci con i gesti dell’amore.
Questo vale anche per i percorsi individuali, nel cammino di fede e in quello specificamente vocazionale. Al centro della vita consacrata sta il mistero stesso di Dio che è amore. Riconoscere questo mistero, con l’adesione della mente e con la consegna della vita, è il compito che attende ciascuno. La rivelazione di Dio amore ci è infatti donata perché anche noi diventiamo capaci di amare come Dio ama, con lo stesso amore con cui egli ci ha amati nel suo Figlio.
Il “come”, infatti, è legato intimamente alla croce, alla sua totale gratuità, che supera ogni umana progettualità e si esprime come puro dono. Il cammino vocazionale incrocia qui gli ostacoli che vengono da una cultura diffusa di stampo strumentale e utilitarista. L’ultimo feticcio da abbattere, in questa prospettiva, è il mito della realizzazione di sé, ma anche della realizzazione della comunità, persino della realizzazione del mondo. Un cammino vocazionale autentico deve prendere sul serio, in tutte le sue sfaccettature, l’affermazione decisiva che: «Tutto è grazia». E, in fedeltà a ciò, si è religiosi facendosi strumento di grazia per gli altri.
10. Essere testimoni della risurrezione per noi religiosi è andare al significato più profondo di quella prima sera di Pasqua che si visse ad Emmaus. In quel luogo i due discepoli riconoscono e proclamano Gesù come il loro Signore nello spezzare il pane: «Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31). Tutto qui, nulla di più; ma nulla di più grande ed essenziale per la vita di una persona consacrata.
Per chi è capace di questo cammino la tristezza si trasforma in gioia, la preoccupazione di sé lascia posto al dono, il Signore non è più perduto per sempre, la Chiesa è la salda radice di una vite che allarga i suoi tralci sul mondo. La vita consacrata uno dono inestimabile. Il sacerdozio una meravigliosa esperienza di servizio alla Chiesa e all’umanità. La Congregazione una tenera madre che ci accoglie e ci segue con amore dal nostro ingresso in essa, fino alla morte, senza mai interrompere con essa il nostro legame spirituale e affettivo. L’autorità un servizio alla carità, all’unità e alla verità. La comunità il luogo della fraternità, dell’incontro, del dialogo, della solidarietà, del perdono, della sincerità ed autenticità di rapporti.
11. In poche parole, per chi cammina con Cristo sulla via di Emmaus, come i discepoli che ci vengono proposti quale icona di riferimento per l’anno eucaristico in pieno svolgimento, alla sera succede la luce del mattino della risurrezione. E per sera, sappiamo che intendiamo il buio, la paura, le incertezze, le insicurezze presenti e future, lo scoraggiamento e l’abbandono; mentre per l’alba intendiamo la forza rigenerante della vita oltre la morte, della gioia oltre il dolore, del sorriso oltre il pianto, della serenità oltre l’angoscia esistenziale.
12. Pasqua per noi religiosi Passionisti è questo, ma anche più di questo: è la gioia di vivere contemplando continuamente il Crocifisso e il Risorto, che porta con sé, oltre la momentanea esperienza del sepolcro, i segni della Passione. Una Passione che include in sé i germogli di una vita senza fine. E’, infatti, con questa prospettiva che agiamo nella vita presente, nell’attesa della Patria celeste. “Io sono la risurrezione e la vita –dice il Signore- chi crede in me non morirà in eterno”. Noi professiamo questa fede nella risurrezione ogni volta che recitiamo il Credo da soli o in compagnia con i nostri fratelli nella fede.
“Occorre far notare ora –ricorda Sant’Ambrogio- quanto sia grave il peccato di chi non crede nella risurrezione. Se non, infatti, non risorgiamo, “Cristo è morto invano”(Gal 2,21), “Cristo non è risuscitato” (1Cor 15,13). Infatti se non è risuscitato per noi, certamente non è risuscitato, perché egli non aveva alcun motivo di risorgere per se stesso. In Lui, invece, è risorto il mondo, è risorto il cielo, è risorta la terra, come sta scritto: Vi sarà un nuovo cielo e una nuova terra”(Cf. Ap 21,1). In Lui siamo chiamati a risorgere, anche noi, carissimi confratelli, a vita nuova. Non celebreremo la nostra Pasqua se non ci asteniamo dal lievito della vecchia malizia, per far rivivere in noi la perenne novità, che è Gesù Cristo. Buona Pasqua a tutti!
Napoli 1 marzo 2005
’Addetto Stampa- Curia provinciale- Passionisti
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