“Dichiarare il Venerdì Santo giornata di lutto nazionale ed europeo”
9
aprile 2004.
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Comunicato stampa
Venerdì 9 aprile 2004, Ore 9.00
Il mistero della morte in Croce di Gesù Cristo, Figlio e Redentore dell’umanità è tra quelli più incomprensibili alla mente umana. Come mai Dio sceglie la via della sofferenza e della Croce per salvarci dalla condizione di peccato in cui eravamo?
Interrogativo su cui si sono cimentati per oltre 2000 anni filosofi e teologi, non solo cristiani, ma anche di altre religioni. Rimane un mistero e come tale va letto in una prospettiva specifica quella della fede. Su questo mistero la Chiesa ci invita a meditare, in modo speciale, in questa giornata di Venerdì Santo. Una meditazione che non si ferma solo alla sofferenza fisica ed umana di Cristo sulla Croce, ma va oltre, nel cogliere in essa, come scriveva san Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti, “la più grande e stupenda opera del Divino Amore”.
Cuore del mistero della nostra redenzione, la morte in Croce di Gesù è un evidente richiamo a migliorarsi, sul modello di Colui che ci amato con versare fino all’ultima goccia del suo Sangue.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil. 2,5-11).
Ritorna la tematica della Parola della Croce da accogliere e da annunciare, da vivere e testimoniare, da condividere e proporre, da amare e da fare amare. Ritorna in un mondo che rifiuta questo messaggio e non riesce a cogliere nel mistero della sofferenza la profondità dell’amore, che si fa oblazione.
La profondità di tale mistero sta nel grande amore che Dio ha manifestato per noi nella creazione e ancor più nella redenzione.
“Verbum Crucis”: è questa la parola ultima, definitiva. Dio ha voluto usare nei confronti dell’uomo e usa sempre questa parola che tocca la coscienza, che ha la capacità di lacerare il cuore umano.
L’uomo interiore deve chiedere a se stesso per quale motivo Dio si è deciso a parlare con questa parola. Che significato ha questa decisione di Dio nella storia dell’uomo? Questa è la domanda fondamentale della Sapienza della Croce
L’uomo contemporaneo sperimenta la minaccia di una impassibilità spirituale e persino della morte della coscienza; e questa morte è qualcosa di più profondo del peccato: è l’uccisione del senso del peccato. Tanti fattori concorrono oggi ad uccidere la coscienza negli uomini del nostro tempo, e ciò corrisponde a quella realtà, che Cristo ha chiamato “peccato contro lo Spirito Santo”. Questo peccato incomincia quando all’uomo non parla più la Parola della Croce come l’ultimo grido dell’amore, che ha la potenza di lacerare i cuori.
“Laceratevi il cuore e non le vesti” (Gl 2,13): questa espressione del Profeta Gioele ci introduce anche nel mistero della Croce e della Conversione, della Croce e del rinnovamento pastorale.
Ricordiamo tutti il racconto della Passione quando nella notte, fra il giovedì e il venerdì, Gesù si trovò davanti al tribunale del Sinedrio e il sommo sacerdote gli pose la domanda: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”; e quando Gesù diede la risposta affermativa, Caifa si stracciò le vesti (cf.Mt 26,59-68).
Il gesto di stracciare le vesti esprimeva sdegno, santa ira, ed esprimeva anche il dolore. Manifestava un grande sconvolgimento interiore. Ma poteva anche essere un gesto puramente esterno, che non raggiungeva l’intima verità del cuore. Perciò il profeta ammonisce, alcuni secoli prima di Gesù Cristo: “Laceratevi il cuore!”.
La Chiesa non cessa di pregare per la conversione dei peccatori, per la conversione di ogni uomo, di ognuno di noi, proprio perché rispetta, perché stima la grandezza e la profondità dell’uomo e rilegge il mistero del suo cuore attraverso il mistero di Cristo.
Accettiamo, pertanto, l’ammonimento di San Paolo, che ci esorta “a non accogliere invano la grazia di Dio” (2Cor 6,1), anzi a capire e a sperimentare la meravigliosa realtà che “se uno è in Cristo, è una creatura nuova” (2Cor 5,17).
E’ evidente che non ci può essere cambiamento serio, a livello personale ed ecclesiale, se non ripartendo da Cristo e da Cristo Crocifisso.
“La parola della croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore. (1Cor. 1,18-31).
Nella Novo Millennio Ineunte il Santo Padre ci invita a contemplare il “Volto dolente” di Gesù Cristo. Nella breve meditazione che ci offre il Sommo Pontefice, nei tre numeri, che racchiudono sinteticamente la trattazione teologica dell’argomento, noi possiamo trovare gli elementi utili, perché questa speciale giornata de Venerdì Santo diventi una giornata contemplativa nel senso più vero del termine. D’altra parte porsi ai piedi della Croce in questo giorno singolare è immergerci nel grande mare della misericordia di Dio nei confronti dell’umanità.
“La contemplazione del volto di Cristo ci conduce così ad accostare l'aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell'ora estrema, l'ora della Croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l'essere umano non può che prostrarsi in adorazione.
Passa davanti al nostro sguardo l'intensità della scena dell'agonia nell'orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, lo invoca con la sua abituale e tenera espressione di confidenza: « Abbà, Padre ». Gli chiede di allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler ascoltare la voce del Figlio. Per riportare all'uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell'uomo, ma caricarsi persino del «volto» del peccato. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).
Non finiremo mai di indagare l'abisso di questo mistero. È tutta l'asprezza di questo paradosso che emerge nel grido di dolore, apparentemente disperato, che Gesù leva sulla croce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
È possibile immaginare uno strazio più grande, un'oscurità più densa? In realtà, l'angoscioso «perché» rivolto al Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si illumina con il senso dell'intera preghiera, in cui il Salmista unisce insieme, in un intreccio toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua infatti il Salmo: «In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati [...] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta» (22[21], 5.12).
Il grido di Gesù sulla croce, carissimi Fratelli e Sorelle, non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, «abbandonato» dal Padre, egli si «abbandona» nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell'anima. La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse, Gesù, vivere insieme l'unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di beatitudine, e l'agonia fino al grido dell'abbandono. La compresenza di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella profondità insondabile dell'unione ipostatica.
Di fronte a questo mistero, accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la «teologia vissuta» dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come «notte oscura». Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore. Nel Dialogo della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: «E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente». Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: «Nostro Signore nell'orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa». È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
Quante volte di fronte alle prove della vita, abbiamo usato lo stesso linguaggio di Gesù Cristo, per esprimere tutto il nostro stato di sofferenza ed abbandono? Dopo un iniziale momento di difficoltà, dopo aver anche noi chiesto a Dio se era possibile che passasse il calice amaro del dolore, con la grazia e l’aiuto di Dio siamo andati avanti nel cammino del Calvario, accompagnando Cristo verso il Golgota e completando in noi ciò che manca alla Passione del Signore: la nostra Croce. D’altra parte Egli l’aveva più volte ripetuto ai suoi discepoli: chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. La sequela di Cristo richiede la volontà di abbracciarsi la Croce e di amare la Croce. Perché solo amandola se ne comprende il senso e la vita assume il significato più vero.
Napoli 9 aprile 2004
Padre Antonio Rungi
antonio.rungi@tin.it
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